Risposta di P. Pirola:
Due sono i problemi: il primo è quello di una professoressa che diffonde dal suo sito privato il suo far sesso con suoi studenti non minori e lo rivendica come suo diritto inviolabile; questo problema "giuridico" è di competenza del magistrato e del ministero della Pubblica Istruzione.
Un secondo problema è quello "morale"...
Rispondo dal punto di vista della morale cristiana. L'azione della professoressa di diffondere quel materiale dal suo sito privato è obiettivamente immorale e antipedagogica; ma il Signore non costringe nessuno a ascolatare la sua parola; ha fatto ogni uomo e donna libero e gradisce solo libere risposte. La libertà è per noi cristiani condizione necessaria ma non sufficiente da sola per decidere se un'azione è o non è immorale.
Ma vi è un altro problema sollevato dalla professoressa: ciò che non è vietato legalmente ed è anzi consentito (almeno come rivendica la professoressa), è esercizio di un diritto del cittadino. Ora: lo Stato tutela diritti e non la morale; la morale (questa o quella) è lasciata alle libere decisioni del privato cittadino e delle Associazioni religiose o etiche di cui il cittadino faccia liberamente parte. Obbietto e domando: un comportamento (come quello della professoressa) non vietato legalmente e giuridicamente consentito e quindi tutelato dallo Stato in nome delle libertà civiche, è senza conseguenze sul comportamento sociale dei cittadini, sia in campo morale sia in campo pedagogico? Siamo partiti dalla rivendicazione di un diritto di una professoressa di farsi vedere a chi ne ha voglia, a far sesso anche nuda con i suoi alunni meggiorenni, e siamo finiti su un problema attuale. Eccolo: la tutela di un comportamento civile del privato cittadino che sia libero e riconosciuto come diritto dallo Stato, non ha effetti sulla moralità della vita sociale e sull'educazione scolastica degli studenti? E se le ha, queste non interessano affatto allo Stato, per il motivo che la morale non è di sua pertinenza o competenza per sua (di chi?) decisione? O basta la legge senza freni provenienti dalla morale a regolare la vita comunitaria? Tracciare una linea netta tra diritti di competenza dello Stato e morale di competenza della libertà privata di ciascuno e delle libere associazioni religiose o morali, è compatibile con la vita sociale o comunitaria? Oltre a Stato e Chiese o comunità religiose, c'è o non c'è il terzo che si chiama società civile o comunità in cui tutti viviamo e conviviamo, volere o volare, e dove la legge non basta a tutelare l'onestà della convivenza? E' un problema su cui si interrogano non solo agenzie religiose ma anche laici intelligenti. la soluzione non può essere che lo Stato tutela diritti e la e le agenzie religiose e morali sostengono la morale finendo allo scontro diretto e spaccando la comunità civile.
P. Giuseppe Pirola s.j.
Risposta del prof. Luigi Zaffagnini, docente di metodologia della comunicazione massmediale
Non è semplice commentare in modo sintetico un fenomeno che, a detta del Corriere, assume proporzioni di massa. Ci sono, oltre agli aspetti etici, anche quelli giuridici, politici, educativi e, ovviamente quelli di mentalità massmediale e comunicativa.
Lasciamo pur da parte la visione religiosa e spirituale che è determinante nel discernimento di che cosa sia giusto o meno anche in ambito di comportamento civile e limitiamoci a una visione puramente “laica”. Già solo secondo essa si può infatti arrivare ad appurare come non assuma valore di difesa della libertà il garantire il fatto che una insegnante di scuola possa accostare al proprio ruolo pubblico una pratica erotica a scuola e in privato e a esibirla tramite web come espressione di soggettività legalmente compatibile con il comune senso delle relazioni sociali, perché i suoi partners sono maggiorenni.
La prima cosa da fare, arrivati a questo punto, è non scandalizzarsi come benpensanti, perché “chi va per questi mari questi pesci piglia”. Cioè, un paese che pone come fondamento delle relazioni sociali la astratta tolleranza senza chiedersi se essa abbia o no un criterio, costringe la maggioranza di chi non accetta le provocazioni e le trasgressioni estreme a convivere con esse e, quindi, diventa esso stesso autoritario, imponendo l’arbitrio di pochi, che però, come in questo caso, grazie alle tecnologie di massa, divengono modelli replicabili.
La riprova di un atteggiamento ambiguo e farisaico sta nello stesso modo di esprimersi del Corriere e di chi sa quanti altri organi di stampa. Da un lato infatti si grida alla oscenità del caso e dall’altro si prospetta la illegittimità di provvedimenti di oscuramento perché contrari alla tutela della libertà privata. Da ultimo infine, per onorare la pretesa neutralità del dovere di cronaca, si fornisce l’indirizzo web di un sito incriminato, solleticando al tempo stesso la curiosità dei lettori e rimettendosi alla loro scelta, non senza aver dimenticato di informare-stuzzicare che il medesimo sito è “vietatissimo” ai minori.
Come dire: la cosa è riprovevole e tentatrice, ma se voi non resistete non potete accusare il giornale di avervi tentato, ma solo la vostra inclinazione e debole volontà.
Ad ogni modo per poter decidere della natura di massa del fenomeno citato e della sua caratteristica immorale o meno occorrerebbe aver visionato almeno gran parte dei siti in questione e dedicato un tempo che non sarebbe giustificato nemmeno dall’eventuale scopo di studio. Pertanto prendiamo per buono quanto dice il giornale sulla consistenza del fenomeno e limitiamoci a fare poche e fondamentali osservazioni.
La prima è relativa al fatto che tanti anni di cosiddetta educazione sessuale nelle scuole, in cui gli aspetti del sesso sono stati considerati solo “tecnicamente” e separatamente dagli aspetti affettivi, hanno sortito un effetto di banalizzazione e di materializzazione della componente fisiologica.
La seconda è che il mondo dei media fortemente pervaso da rappresentazioni crude e ammiccanti del sesso è il prodotto mercantile di una mentalità sessantottista che voleva in generale obbligatoriamente che il privato fosse pubblico. E dunque in particolare, che anche gli aspetti più intimi del rapporto tra esseri umani fossero spogliati di qualunque parvenza di pudore. Dopo tutto, il sessantotto è stato anche una miscela di Freud, di Marx e Nietzche e, volenti o no, ha ruotato intorno alla “liberazione” istintuale contro la morale borghese e religiosa, viste a torto come esclusivamente sessuofobiche.
La terza è che anche il genere femminile non si esime dall’usare lo stesso tipo di violenza e di mercificazione della figura umana che a lungo il genere maschile ha usato nei confronti della donna. L’autonomia femminista è diventata imitazione e replicazione del peggior maschilismo sotto il profilo della aggressività, della volgarità e della assenza di ogni rispetto per la psicologia dell’altro.
Ci fermiamo pertanto a considerare cosa già accade oggi quando le parti sono invertite e si tratta di un insegnante uomo che approfitta di studentesse. Ci chiediamo anche se, all’eventuale mantenimento di un sito analogo a quello della professoressa in questione da parte di un professore maschio, si sarebbero invocate le attenuanti della privacy e della libertà di espressione. Certamente, e giustamente, no.
Tutto questo a maggior ragione perché c’è di mezzo una figura che, almeno in teoria, istituzionalmente, dovrebbe essere chiamata a unire le sue competenze professionali disciplinari a quelle educative e formative. E che il modo di proporre il sesso della professoressa in questione, almeno a quanto è dato capire dalla esperienza riferita dal Corriere, abbia una valenza di natura didattica e formativa, anche se solo sotto il profilo funzionale, è tutto da dimostrare per via della assenza di contenuti ideali o affettivi accanto a quelli squisitamente meccanici.
Nessuno impedisce alla insegnante di fare del suo apparato genitale l’uso che ritiene più confacente alla sua psicologia e alla sua istintualità. La cosa pertiene, caso mai, a un ambito medico-clinico che può essere descritto e trattato con la opportuna competenza professionale da altri. Piuttosto la si può contestare sotto due profili: quello della illegittimità di utilizzo della propria posizione professionale e di locali adibiti ad altro uso, per trarne un interesse del tutto soggettivo e privato anche se non direttamente pecuniario; secondo, quello di esibire attraverso sistemi di comunicazione aperti al pubblico un messaggio che essa ritiene espressione di libertà, mentre al contrario è estremamente condizionato, succube e servile e dunque minimamente educativo pur di un frainteso e soggettivistico esempio di libertà.
La questione infatti risiede, non nelle opinabili concezioni di libertà del singolo soggetto, in questo caso la professoressa, bensì nella scarsa intelligenza di un sistema che scambia ogni forma di soggettivismo come degna di essere comunque resa pubblica. Ci dica allora il nostro apparato politico-comunicativo quale è il criterio secondo il quale esiste una legittimità o meno degli atti sotto il profilo della ostensione a un pubblico indifferenziato. Ci dicano gli intellettuali, moralisti difensori della individualità, se possono accettare che ogni tipo di contenuto visivo sia comunque presentabile a prescindere dal modo con il quale il linguaggio della immagine lo rende per via delle sue de/formazioni. Il problema è ben altro che quello di una assetata di sesso!
Una società che si richiama a regole e criteri di vita di relazione tra i suoi componenti ha il dovere di fissare dei limiti nella legge positiva. E il presupporre che essa legge necessiti di un richiamo a una legge naturale che garantisca il rispetto della vita e della figura umana, anche a prescindere dalla visione religiosa, è un fatto di civiltà e di elevatezza di principi di convivenza, che non può essere confuso con l’astratto garantismo di ogni arbitrio soggettivistico.
I media, che hanno enormi responsabilità, riflettano su questo e i cittadini riflettano sul fatto che educare è anche censurare, senza avere paura di passare per reazionari. Non si può educare chi non vuole accettare nessun limite alla propria egoistica espressione soggettiva. Lasciare che una società proliferi in modo disordinato secondo un principio strettamente soggettivo, elevandolo a denominatore di un comportamento di massa, vuol dire distruggere la società stessa in nome del massimo conformismo nel massimo egoismo. Vuol dire, più che l’anarchia morale, la permissività della violenza individuale e la sopraffazione del più forte, in tutti i sensi, nei confronti del più debole. E questo è ciò che sta accadendo ormai da troppo tempo o almeno da quando si è ritenuto che la vita in sé e la famiglia siano obiettivi sistematici di una guerra che viene scambiata per progresso della libertà e della modernità. (Luigi Zaffagnini)