L’Anno Sacerdotale iniziato il 10 Giugno corre via veloce: penso che tutti noi abbiamo cercato di «riscoprire la bellezza e l’importanza del sacerdozio con una particolare attenzione al problema prioritario delle vocazioni al ministero ordinato».
È questo l’auspicio della lettera inviata dalla Congregazione per il Clero a tutti i Vescovi del mondo.
Il Papa, lo scorso 16 marzo, aveva annunciato l’evento sottolineando la «necessità di una tensione verso la perfezione morale che deve abitare in ogni cuore, da cui dipende l’efficacia del ministero di ogni sacerdote».
Tipo di vita: il Curato d’Ars, nel 150° anno della morte.
Nulla di spettacolare in quest’anno: deve essere vissuto solo come rinnovamento interiore, nella riscoperta della propria identità, della fraternità, del rapporto sacramentale con il proprio Vescovo, guardando a Gesù nel suo cammino tra noi, puntando lo sguardo in modo intenso sulle due inquietanti presenze: stalla-croce che ciascuno di noi deve avvertire e personalmente interpretare.
Il Curato d’Ars aveva paura del suo viso: era degno o no di essere presentato alla gente?
Lo afferma l’abbé Francis Trochu nella biografia del curato: «Quando andò ad Ars i pochi suoi beni lo seguivano in un carro, non erano suoi, gli erano stati lasciati per testamento dall’abbé Francis: qualche vestito, un comodino in legno, libri e due oggetti: un ombrello e lo specchio. Questi due elementi semplicissimi sono riconducibili a due momenti e quindi a due virtù che il Curato ebbe costantemente fisse nel suo quotidiano.
Lo specchio per guardarsi che faccia aveva quando si presentava al Signore specialmente nei momenti dell’Eucarestia.
L’ombrello fu interpretato come segno della povertà. Non ne sono convinto.
Per quel poco che so del Curato d’Ars, l’ombrello, per lui, era il segno della paura.
Paura di Dio? L’ombrello lo corazza dal sacro che incombe dall’alto.
Tra le cose più difficili da comprendere nella vita del Curato figurano i suoi tre tentativi di fuga da Ars.
Come comprendere queste evasioni, queste fughe?
Fu proprio Lui che spiegò ad un amico le origini della propria inquietudine che lo condusse alla fuga dal suo Ministero: «Ah, no è il lavoro del ministero sacerdotale che costa: ciò che mi terrorizza è il bilancio della mia vita come curato».
Allo stesso tempo confessò ad un amico: «Tu non sai cosa significa passare dalla cura delle anime al tribunale di Dio!».
Inoltre la sua paura aveva le radici nell’esperienza di confessore. Quando entrava nel confessionale, iniziava la sua morte, perché viveva il Cristo agonizzante sulla Croce.
Una sua preghiera recitata alle prime luci dell’alba, dopo una notte distesa sul pavimento della Chiesa: «Mio Dio donami la conversione della mia Parrocchia, sono disposto a soffrire tutta la mia vita, farò qualsiasi cosa che ti possa far piacere, mettimi tutto il peso che vorrai sulle spalle, si, anche per centinaia di anni sono pronto a resistere alle sofferenze più laceranti, ma fa che il mio popolo si converta».
In me c’è un’altra paura: «quanta distanza dal Curato d’Ars nel mio quotidiano!».
Mons. Giovanni Battista Chiaradia