Quanto è difficile volersi bene - di Mons. G.B. Chiaradia

L'incontro di civiltà non è meticciato, non è confusione, non è tolleranza

24/10/2009
Interpretare i viaggi del Papa e i Suoi interventi, come riconoscimento che tutte le religioni sono uguali ed hanno la stessa verità, non è nell’intento del Pontefice.
Il suo pensiero, infatti, è che tra persone e culture si stabiliscano relazioni di serena convivenza che, quando manca, disumanizza l’insieme e nasce la contesa.
Su questo concetto è apparso in questi giorni a Venezia un libro di Paolo Gomarasca: «Meticciato, convivenza o confusione»?, che tratta precisamente il processo di incontro tra culture diverse.
Meticciato nel senso di un rapporto tra razze diverse, che nel campo religioso diventa un insieme di credenze e opinioni, che può generare confusione.
Il Pontefice parla di rispetto, di aiuto reciproco, di civiltà che punti sul quotidiano, in modo concreto, sulle tecniche che migliorino le condizioni di abitazione, sull’igiene pubblica, sulla cura della salute, sull’accrescimento della speranza per il futuro, sulle istituzioni educative e comunicazioni di massa.
Tutto ciò si sintetizza nel termine «civiltà».
La «civilitas» dei latini aveva il significato di condizione sociale e culturale più sviluppata o privilegiata rispetto alla condizione di coloro che abitavano nelle campagne ed erano fuori dalle risorse della città, con la sua cultura, arte e letteratura; per la sua grandezza ha sfidato i millenni ed è giunta a noi se non proprio intatta per le vicende e l’usura del tempo, dimostrando, però, la sua inconcepibile grandezza.
Ma quelli delle campagne vivevano come bestie in una povertà inconcepibile. Non parliamo poi degli schiavi e della plebe che venivano usati negli stadi come divertimento, in lotta impari contro leoni e tigri.
Per trecento anni, fino a Costantino, la ferocia romana contro il Cristianesimo, è stata immane.
Ferocia antica? Ma non c’è anche nei nostri giorni, quando sento che ragazzi appena adolescenti, della nostra razza bianca decantata come superiore dal filosofo Kant, precursore di Hitler, hanno massacrato a morte un coetaneo di razza africana?
Stiamo attenti, non parliamo di tolleranza soltanto, brutto termine che indica che siamo disposti a «tollerare» l’altro di altra razza, senza il reale desiderio di convivere con lui e partecipare alla sua vita in modo costruttivo per il suo quotidiano: riconoscendo la sua storia, le sue origini che devono essere rispettate, soprattutto per scoprire che il loro passato ancestrale è ricchissimo di idee e fatti tante volte migliori delle nostre.
L’esempio più significativo è il «metissage» dell’America.
Mai dimenticare che nella storia si è presentato l’incredibile, l’inimmaginabile «Shoah», specialmente in un popolo di immensa cultura come quello tedesco a quel tempo di trenta e più milioni di individui che non hanno mosso un dito di fronte all’immaginabile tragedia.
Leggo nell’ultimo libro di Giuseppe Genna «Hitler» una citazione presa da «Il mistero di Hitler» di Lanzman e Rosenbaum quanto sia incomprensibile quello che è avvenuto nella Germania dal 1930 al 1945.
Si possono esaminare tutte le ragioni, tutti i tentativi di spiegazione: il contrasto tra lo spirito tedesco e lo spirito ebraico, l’infanzia di Hitler e così via. Ogni spiegazione può essere vera e tutte le spiegazioni prese insieme possono essere vere. Ma sono semplici giustificazioni: se anche sono necessarie, non sono sufficienti.
Un bel giorno si deve cominciare ad uccidere, cominciare a sterminare in massa.
E io dico che c’è uno iato tra queste spiegazioni e il massacro: non si può generare un male di questa portata.
E se si comincia a spiegare, a rispondere alla domanda «perché» si finisce, lo si voglia o no, per giustificare. La domanda in se stessa racchiude la sua oscenità.
Perché gli Ebrei sono stati uccisi? Perché non c’è risposta alla domanda «perché».
Mons. Giovanni Battista Chiaradia