Non sempre la vacanza è positiva. Può succedere che si torni a casa più stanchi di prima e specialmente delusi. Anzi, con qualche colpa nell’anima!
Le giornate dell’impegno costringono la coscienza al dovere: così come il lavoro quotidiano, specialmente quello eseguito con puntualità e precisione.
La vacanza è «evasione», è uscire dalla strettoia dell’orario, dell’impegno talora gravoso o pericoloso che ti obbliga a tenere gli occhi attenti a quello che stai scrivendo, alla risposta saggia e precisa: non parliamo poi quando si tratta di una sentenza di tribunale.
In questi giorni corre il pensiero a quei tecnici che stanno studiando il disastro del treno deragliato, carico di gas, che ha prodotto quella inconcepibile tragedia.
Penso al chirurgo che deve incidere, tagliare, ricucire.
Finito il lavoro, talvolta o sempre, c’è poco da «evadere» perché urge la presenza per un altro disastro improvviso.
Arriva la vacanza, le meritate ferie, sei finalmente libero, ti hanno sostituito in questi giorni!
Ma che cosa succede?
Una telefonata inaspettata, una visita improvvisa, una vecchia cartolina che schizza fuori da un libro, un’occhiata per strada che sembrava ormai perduta, una mano tesa da un’auto in corsa: memorie che sembravano cancellare dalla nebbia del tempo, rinverdiscono all’improvviso, ti agitano, ti travolgono in una situazione inquietante.
Addio vacanze! Tu, ora, sei in pericolo, evadi dal tuo «io» che credevi ormai denso di quotidianità normale, decisamente pesante, ma sereno, composto, che ti ha costretto al dovere e avverti una violenza di mente e di cuore che ti fa uscire da te stesso.
Ha ragione il filosofo Nicola Abbagnano che definisce l’evasione «impazzimento dell’inquietudine».
Succede in quel momento che nell’animo si risveglia quel precetto divino «del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino»: «Non lo dovete mangiare, non lo dovete toccare».
Metafora stupenda, ma inquietante perché quel giardino può essere quel sito che è la memoria in cui si depositano automaticamente uno sguardo luminoso che ti ha colpito nei banchi della scuola e che credevi ormai cancellato, quella stretta di mano dell’altro giorno, un profumo violento, uno sguardo, un gesto, una passeggiata, una serata.
La poderosa e gratificante ora del dovere, in cui hai costruito il tuo essere, si trova, in un istante, in un pericoloso momento.
Quegli occhi, quella telefonata, quella mano da un’auto in corsa, quella passeggiata, quel banco di scuola, la mano, il profumo…
Sembrava tutto sepolto nel dovere.
Memorie grate e luminose che ti assalgono poderose; se non stai attento ti sommergono. Forse pensi solo ad un saluto, ad una cena, ad un incontro in qualche locale di musica o danza.
Non lo fare! Forse non sei abituato a due parole essenziali per la tua giornata:
coscienza e fedeltà.
Non sono parole che vengono dalla religione: sono un imperativo morale del proprio «io»!.
Non sei persona se non sei fedele al dovere che è dettato dalla coscienza.
La fedeltà si definisce da sé: è obbedire ad un patto con se stesso o con l’altro o con l’altra.
La coscienza è diversa: ai nostri giorni ha molto seguito la teoria di una società che influenza la coscienza del singolo. Si parla di coscienza telecomandata dalla pubblicità, dall’ambiente, dai media.
Gli ingannevoli travestimenti in cui il male si avvicina rendono insicura la sua coscienza fino al punto che mentiamo a noi stessi.
Ciò che distingue il cristiano dall’umanista è il rapporto con la legge di Dio. Dio che mette a fuoco coscienza e fedeltà perché stiano insieme.
Giovanni Battista Chiaradia