L'Ascensione - di Mons. G.B. Chiaradia

Come vivere nel quotidiano un così grande evento?

23/05/2009
Il periodo dopo Pasqua è il più alto della dottrina cristiana, è il più difficile da vivere nel quotidiano.
Luca, presentando l’Ascensione di Gesù, scrive: «Mentre benediceva» si separò «da loro e veniva portato verso il cielo».
Noto che il verbo del testo originale greco: «dieste» non va tradotto «si separò», ma «si staccò».
Nell’Ascensione Gesù si stacca dal quotidiano difficile e pericoloso della sua vita terrena e soprattutto dal Calvario e dalla Croce.
La Resurrezione lo aveva già liberato dal sepolcro, ora si stacca dal «terrestre», dal limite umano per vivere l’indicibile ambiente dell’Eterno dove la sua dimensione di figlio di Dio lo avvolgerà della sua gloria.
 
Come vivere noi questo indicibile momento della vita di Gesù?
Certamente la tensione di ascendere è un dato della nostra coscienza.
Non ci si accontenta mai di un traguardo, vogliamo sempre salire. Ma come? Talvolta è un salire burrascoso e oscuro.
Come altre volte in questi nostri incontri, penso alla nostra letteratura.
Eugenio Montale nel suo «Piccolo testamento» del 1953 parla di «un lucifero dalle ali di bitume che cala sulle capitali dell’Occidente» e alla sua amata raccomanda di salvarsi dalla buia catastrofe: «Conservane la cipria nello specchietto, quando spenta ogni lampada la sardana si farà infernale».
La metafora è semplice: Cioè, conserva qualcosa di leggero, di volatile contro la terribile pesantezza di un demonio che si abbatterà sulla terra.
Un altro passo della nostra recente letteratura:
Italo Calvino nella sua «Lezioni Americane» cita il «De rerum natura» di Lucrezia in cui la materia ha in sé dei corpuscoli invisibili che le permette la libertà di salire nell’invisibile.
E Ovidio, quando racconta come una donna s’accorge che sta trasformandosi in giuggiolo «i piedi le rimangono inchiodati a terra, ma una tenera corteccia sale e poco a poco le serra il corpo; fa per strapparsi i capelli e si trova la mano piena di foglie».
Per Lucrezia e Ovidio la leggerezza è un modo di vedere il mondo non solo nella sua entità pesante, bensì in una leggerezza che porta la persona in un’altra ottica, in un’altra logica oltre quella della pesantezza, in un altro metodo di conoscenza e di verifica delle cose e della nostra esistenza nel tempo.
Un salto dal mondo latino al nostro romanticismo che ha fissato l’uso della parola «infinito, assoluto» come oggettivo e sostantivo.
La sua profonda esigenza fu la sua polemica contro ogni forma di ragione e di intelletto che si ferma nella pesantezza dell’oggetto senza alzarsi in altra intuizione.
Il lettore comprende che nel Cristianesimo non si tratta solo di ascensione letteraria, anche se è necessario averla nella mente e nell’anima perché preparano molto la nostra persona a capire Gesù nella sua Ascensione.
 
In questi giorni è necessario abituarci ad immergere mente e sentimento in quei verbi del Vangelo: «si staccò», «fu elevato in alto». Gli Apostoli «fissando» il cielo, mentre Egli «se ne andava». E due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù che è stato tra voi assunto in cielo, tornerà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (Atti degli Apostoli 1,11).
 
Pensare, ripetere, meditare in silenzio queste parole per avvertirne un legame vivo e personale sul fuori di sé, dove Cristo è asceso.
Ora la persona non è più lasciata a se stessa di fronte al mondo e alle sue potenze, non è più costretta a fare affidamento su se stessa o su un oggetto o un valore o una amicizia pur cara che sia, ma sa con sicurezza che il suo punto di forza è al di fuori di sé, nel mistero che pur essendo tale, sa che è una roccia che non si spezza mai, un vestito che avvolge di sicurezza e di dignità, la stessa dignità del Cristo.
Mons. Giovanni Battista Chiaradia