E poi mi trovo qui, a vedere la mia casa e i rumori della mia gente. Mi trovo qui e sembra che il mondo non sia poi lo stesso per tutti: sembra possa esistere un inferno e un paradiso senza un confine sfumato, solo netto. Un giorno ed una notte che sanno d’amore e di morte. Solo d’amore o solo di morte. Pensavo che l’alba arrivasse più lentamente. Non ricordavo un passaggio così veloce. “Ma hai sentito, Albè?”. “Si, ho fermato la televisione che stava per cadere, Andrè!”. “Vabbè dai, io vado a dormire”. “Si, si, spengo e mi metto a letto anch’io che domani devo ripetere per l’esame”. Poco dopo la scossa delle 00.00 abbiamo scherzato un po’ col coinquilino. Cercavamo di sdrammatizzare, anzi, credere e convincerci che le tante rassicurazioni dei giornali dei giorni e dei mesi precedenti valessero anche per quella, che sembrava una delle tante, solo l’ennesima scossa. Nessuno tra gli amici, né i tg alimentava preoccupazioni. Ho salutato Andrea e chiuso la porta accanto al mio letto. Ho acceso la luce della scrivania. Ho dato un po’ di ordine a delle carte e ho rotolato tra le mani il mio anellino. Ho pensato forte a lei. Senza che il pensiero si fermasse su qualcosa di particolare.
Quando penso a lei, che sia un’arrabbiatura o una gioia, in quel pensiero finisco sempre col sorridere. Ho pensato a quello che mi ero detto poco prima con Andrea, al fatto che era da poco entrato l’ultimo giorno prima dell’esame e poi agli amici con cui nel pomeriggio per messaggio progettavo una pasquetta.
Ho acceso la luce del comodino e spento l’altra. Mi sono svestito e indossato il pigiama blu che era sotto ai miei cuscini. La batteria del cellulare, come ogni volta, l’ho collegata al caricatore. Ha emesso un suono. Mi sono arrivati alcuni messaggi. Parlavano di “buonanotte” e ho rimesso il telefonino accanto all’interruttore della lampada. Non ho spento subito e son rimasto seduto un po’ sul letto a pensare a tante cose, fissando un disegno formato “carta da imballaggio”. L’avevo disegnato perché volevo nascondere un alone che stava su quel lato della stanza, che seppur impercettibile m’infastidiva vederlo. Ho fissato a lungo paperina che guardava paperino e ho pensato in silenzio, sorridendo: “Quanto le somiglia!”. Sono sceso con lo sguardo sulla porta e il cuore mi ha detto: “non sarebbe meglio lasciarla aperta sul corridoio questa notte?” ma ha risposto per me la stanchezza. Ho tirato in basso il tasto rosso dell’interruttore della lampada e mi sono girato sul fianco stringendomi addosso il piumone.
Nell’omelia della messa delle 20.00 don Gino, che ha pochi anni più di me, aveva commentato la lettura della passione della Domenica delle palme con “Dio non è un’assicurazione, un modo per evitare i problemi, sfuggire da essi. Dio ti dà la forza e il metodo per viverli e attraversarli”. Mi è ritornata in mente questa frase insieme ad altre, alla fine della quale ho detto “Aiutami a chiederTi perdono”, col desiderio di volermi confessare per la settimana santa che iniziava. Al Cielo ho lasciato questo pensiero e le sue ali. Gli occhi erano chiusi già da un po’, i pensieri mi hanno accompagnato nel sonno. Amore. Silenzio. Stanchezza e finalmente sonno. Ore 3.32. Il rumore di un martello pneumatico, incalzante, deciso, continuato, infinito. Che rumore forte! “Cos’è?”. Il letto vibrava e mi son messo in piedi per la stanza. L’equilibrio mancava. L’armadio sbatteva.. Buio. Tutto buio. Troppo buio. “Andrè! Andrè!” ho gridato con tutta la voce che potevo “Albè!” ho sentito rispondermi. “Cazzo! Cazzo! Questa è forte! Dai, dai usciamo!”. Sono tornato in camera. Ho cercato le scarpe nel buio e le ho infilate senza preoccuparmi dei lacci. Buio. L’abitudine mi ha fatto prendere il cellulare ed il portafoglio. Buio. Mi sono avviato per il corridoio della casa. Buio. Sentivo la voce di Andrea gridare, ma perdevo l’equilibrio. Buio. La luce del cellulare mi ha fatto intravedere una crepa importante. Ho temuto. Nell’ingresso cercavo il giubbotto, che era accanto alla porta. Ho sbattuto il ginocchio. Ho iniziato a scendere le scale e nel buio sentivo i calcinacci e le briciole di tufo per terra. Respiravo polvere. Sono riuscito ad arrivare in fondo al condominio. Il portone d’uscita era bloccato da un pannello di legno che decorava il corridoio d’ingresso. Il pannello era grande più di un’automobile e sopra era ricoperto di tufi e calcinacci. Li abbiamo spostati e abbiamo provato a tirarlo su. Il cuore faceva mancare il fiato e al primo tentativo il pannello ci è caduto a terra per il peso. Abbiamo provato una seconda e poi una terza ed una quarta volta. Abbiamo provato a muoverlo in mille modi con addosso una paura che altro è immaginarla altro è viverla. Andrea ha picchiato con i pugni sul portone gridando “Aiuto! Aiuto!”. “Dai Andrea vieni qui, proviamo di qua!” e finalmente, con una forza che non avevo pensato potessimo avere considerando i tentativi precedenti siamo riusciti a tirare su il pannello. Andrea aveva avuto la lucidità di prendere le chiavi. Se non le avesse prese ci saremmo trovati bloccati perché la serratura a scatto, elettrica non funzionava, ovviamente, senza elettricità ed ormai la porta di casa era chiusa dietro di noi. Sembrava fosse tutto finito, ma poco dopo un polverone immenso ci ha travolti. Nei lampioni andava e veniva la corrente e tutto diventava ora fioco ora completamente buio. Ci siamo allontanati per strada come se si camminasse nella nebbia. Al centro dell’incrocio di via xx settembre con la villa comunale iniziavano ad arrivare come zombie ragazzi e ragazze che piangevano gridando. Chi in pigiama, come noi, chi in mutande, chi con ancora addosso il piumone. Tutti travolti dalla disperazione. Un signore mi ha chiesto di telefonare. La linea per la quale chiamava non era libera. Ho provato a fare il numero di don Gino e poi quelli di tanti altri amici. Mi ha risposto piangendo. Era in piazza duomo e gli siamo corsi incontro. Vedevo cornicioni penzolanti, abitazioni squarciate, il corso bloccato dalle macerie e pellegrinaggi di paura a volte lenti d’incredulità e a volte in corsa di disperazione. E intorno respiravamo polvere di tufo e si tossiva. Sotto i calcinacci un uomo chiedeva aiuto. In piazza un altro si reggeva il sangue. Alcuni stesi per terra respiravano ad occhi chiusi. Abbiamo incontrato don Gino, che piangendo mi è corso incontro e mi ha abbracciato forte. Molto forte. In pochi istanti la piazza si affollava e i messaggi tra noi studenti arrivavano anche sul mio telefonino. Tra questi quello di Claudia: “Stiamo partendo con la macchina adesso, vieni con noi?”. Mi sono voltato verso don Gino e a lui ho fatto questa stessa domanda. “VAIIII!” mi ha gridato. Ho salutato Andrea e Luisa e sono corso tra le macerie verso la villa comunale. Il traffico aumentava, i clacson sembravano impazziti. Ero fermo, nel pigiama, ad aspettare Claudia e i suoi genitori, con la terra che borbottava di assestamento.
Un viaggio silenzioso, di notte verso strade che non conoscevamo. Il desiderio di fuggire il più possibile da lì. “VAI!”. Se non avessi sentito quel grido non sarei partito. Sarei rimasto lì, nella mia famiglia universitaria, perché (e che se ne dica) lasciare un amico era come lasciare un fratello. Se quel grido avesse tentennato, se solo avesse tentennato, non mi sarei mosso, anche se tutto, intorno non poteva altro che definirsi inequivocabilmente inferno. Avere una persona accanto conosciuta, avrebbe alleviato le paure. In macchina son rimasto in silenzio, nel mio pigiama blu, come si sta di fronte a tutto ciò che non puoi capire. Come ha fatto a non cadermi l’armadio enorme addosso? Come abbiamo fatto a sollevare quella lastra con Andrea? Come ho fatto ad uscire da quel palazzo ed incontrare proprio quel “VAI!”? E Claudia come ha fatto nel panico, nella corsa, a ricordarsi proprio di me? Pur restando in silenzio, questo ripassavo nel mio cuore, incredulo, nel dubbio tra un sogno riuscito male o lo spettro crudele della realtà. Come non posso chiamarlo “miracolo”? Come faccio a non credere che sia stata “provvidenza”? Perché pensavo al Signore quando quel portone sbarrato sembrava che dicesse soltanto “Dove andate? Siete sepolti qui!”. Sono vivo e lo racconto. Scrivo in casa mia, nella stagione dei germogli dei fiori, con le voci dei vecchi che passano sotto il mio balcone e parlano un dialetto che conosco. Lo racconto e come faccio a non parlare di una “grazia”? Come faccio a non sentire su di me, adesso, anche la vita di Armando, Rossella, Andrea, Giulia, Serena… che non ci sono più? Ma solo di loro ho notizie: c’è chi è ancora lì, sotto quelle pietre. E tanti, tanti amici non li ho più sentiti: hanno i cellulari spenti. Non so che fine abbiano fatto, né se un giorno mai più li rivedrò. Ho solo il cuore che parla e li cerca respirando ancora e il mio cuore lo fa negli abbracci, nelle voci, negli occhi delle persone che adesso incontro e sento ininterrottamente e che amo stringere a me e sentirle vicino perché ne ho un bisogno infinito. Alcuni sono amici che conosco da tempo, ma altri di voi, come forse sei anche tu che stai leggendo, non li conosco, ma anche a te scrivo questa lunga lettera, che parla di vita e di morte nello stesso respiro e che non cerca spettacolarizzazioni, ma un po’ di tempo per parlare alla tua coscienza. Non cercar il successo, il potere, i soldi, l’arrivismo, cancella dai tuoi pensieri tutti i rancori, i litigi che ci sono nella tua famiglia, fuori, nel lavoro. Perdona, cerca proprio quella persona a cui vorresti dire qualcosa e perdona! Oggi! Adesso! Muovi tu il primo passo ed ama! Che ne hai della tua vita se un giorno perderai tutto? Fa che quei silenzi non si trasformino in rimpianti eterni. Ama! Ama davvero, con tutto ciò con cui puoi dimostrarlo! Di “Ti voglio bene!” a chi incontri, ripetilo. Sorridigli e non t’importare di sembrare ridicolo. Rispetta ciò che hai e non confezionare programmi di corse frenetiche o momenti che non servono ad edificare dentro di te valori che poi non puoi raccontare. Non perderti negli estremismi del divertimento, della velocità, dell’alcool, della politica, delle idee… non serve! Tutto ciò vale poco! La ricchezza, quella vera, quella che basta è nella povertà di un affetto. Non serve a nulla accumulare finti bisogni: ciò che puoi portare con te è solo ciò che porti dentro di te, il resto finisce! Tutto! Avevo finito di scrivere il mio secondo libro, un romanzo, ne avevo iniziato un altro, aspettavo di fare l’esame due giorni dopo il terremoto per poi dedicarmi ad inviare quel testo… alle case editrici e sognare una pubblicazione. Avevo programmato quando contattare il professore per iniziare ad informarmi sul lavoro di tesi. Avevo conosciuto un sacco di nuovi amici. Ed ora? Ne conservo soltanto una bozza, ma non ricordo più dove; non so se e quando ricomincerò l’università, alcuni di quei cuori non ci sono più… . Ho visto persone rincorrere lo studio, gli esami, il “primo posto”, ogni giorno, senza voler cercare spazio nella loro vita per suonare una chitarra e cantare, ho visto professori universitari sentirsi onnipotenti e intervistati giorni dopo dentro ad un pigiama, ho visto me stesso, di fronte a quel portone solo e spogliato della mia vita: “Mi fossi confessato” ho pensato in quel momento. Perché nient’altro ti resta che il Cielo. Perché solo quello sa cercare, in quel momento il tuo cuore. Perché vivi quegli attimi di paura senza avvertire la distanza che puoi vedere normalmente tra il cielo e la terra in un qualsiasi giorno di solo. Tiri tutto giù e il tuo cuore parla con qualcosa che somiglia davvero a quel “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!”. Si, sembra strano forse, pensare che ti venga in mente questo, ma con la morte in faccia (perché solo questo mi diceva quella lastra di legno) non desideri altro che morire nel migliore dei modi, anche se non sai se quel Dio che si racconta nella storia e ti chiede di voler vivere dentro di te, di essere il suo prolungamento sulla terra, esiste o meno per davvero. Quelle immagini che si vedono in televisione non si fermano soltanto lì: i miei occhio vanno oltre, perché conoscono il punto, il colore del palazzo accanto (che magari non viene inquadrato dalla telecamera) e dentro quelle montagne di pietre sanno chi ci può dormire. Oltre quelle immagini vedono storie di persone che fino a pochi giorni prima, ti avevano aperto la porta di quella casa per darti degli appunti o invitarti per sorridere ad un caffè. E noi oggi chi siamo? Dietro cosa ci perdiamo? Quanto siamo pronti a vivere la morte? E’troppo facile dare ancora la colpa di tutto a Dio! Quelle case non le ha costruite Dio, che si preoccupa (ed occupa) invece, di edificare dentro di te, ciò che hai dentro: quelle case le hanno costruite gli uomini, con la loro libertà. Ma con quale coscienza? (E quale scienza?) Se una basilica di San Bernardino alla grande scossa non si è neppure aperta e la casa dello studente dondola come fosse di cartone: una costruita con le regole della matematica, l’altra soltanto con quelle umili di un passa parola. Cosa resta dell’orgoglio di quegli alloggi quarant’anni dopo? E’ possibile che dietro ci sia ancora una volta una logica di profitto? Si, rispondo io! Si! Perché a L’Aquila, gli studenti meno facoltosi, pur di avere un alloggio dormivano dentro gli appartamenti, che non chiamavi “tuguri” soltanto per non offendere la dignità di quell’amico. Ma con quale coscienza si affittavano? Con quale coscienza gli amministratori pensavano ad una “metropolitana di superficie” poi mai più ultimata per errori di calcolo, quando quei soldi per un servizio, oggettivamente ritenuto inutile da tutti, potevano servire per migliorare gli stabili? Andrea, Armando, Rossella, Serena, Giulia… non siano soltanto storie sulle quali ritorcere un dolore ma portino fuori di noi ciò che conta veramente, ci educhino (ex ducere) a vivere responsabilmente il nostro lavoro, le persone che incontriamo e la nostra religiosità. Personalmente, ora che ho pianto e sono tornato a sentire il mondo, dico di aver visto davvero tanto di quello che testimonia il Vangelo. A tutti i miei amici in rubrica, questa mattina, ho mandato un messaggio che riassumeva questi pensieri, invitandoli a non confondersi, perdersi dentro le banalità, ma di cercare Cristo, perché chi sa vivere un’esperienza con Lui, anche fuori dalla semplice Pasqua e della messa fa un’esperienza d’amore, che non è diversa da quelle che passano attraverso i nostri messaggini del telefonino, i baci, le complicità e le passeggiate in riva al mare… e come tale, morte o vita che sia, ha la potenza di sconfinare oltre gli estremi confini della terra. Senza la mia fede, avrei sofferto molto di più. Il cuore mi tiene in mano e parlo: sarei potuto morire, ma sarebbe stato diverso morire in pace con il Signore, e all’appello delle mie responsabilità di studio e di relazioni umane, quella notte mancava solo Lui. Non restiamo in silenzio, parliamo, abbracciamoci, cerchiamoci, rispettiamoci, stimiamoci… sia questa tragedia l’inizio di un nuovo modo di vivere. Non ci blocchi la paura: c’è Chi ha insegnato un metodo per vivere la morte. E’ questo ciò che passa nel mio cuore ora che posso ritornare a guardare il mio mare e sento il dovere di amplificare questa Verità, con la speranza che tu in prima persona possa tra i tuoi cari, diventare suo prezioso e irripetibile prolungamento. “E’ arrivato il tempo, di lasciare spazio a Chi dice che di tempo e spazio non ne ho dato mai”. Canto questa canzone scritta dal mio amico Giuliano Sangiorgi. Ho trasformato quel “chi” in maiuscolo, Signore, perché come facevo anche da bambino, con la mia chitarra ti dedicavo le canzoni che più mi piacevano. La dedico Te, perché per pensare all’esame, alla corsa della ripetizione, fino a quella notte, pensando ancora una volta di più a me stesso non ero riuscito a trovare “spazio e tempo” per chiederti perdono, neppure per un’ora.
Alberto Zuccalà
Studente del sesto anno della facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università degli studi di L’Aquila sopravvissuto per miracolo al terremoto.