Penso la Croce del VENERDI’ SANTO come sintesi di tutta la Settimana Santa, dalle Palme alla Resurrezione.
Se fisso lo sguardo nella verticalità della Croce con il Cristo innalzato tra cielo e terra, con le braccia distese orizzontalmente in un ampio abbraccio universale, intravvedo tutta la dimensione del cristianesimo.
Questo è il concetto dell’evangelista Giovanni in 5 momenti.
1) «Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo» (Giov. 3,14).
Il serpente, nel pensiero antico, ha una natura ambivalente. È minaccioso e, per il suo strisciare per terra e il suo vivere nelle profondità delle acque, ha una relazione con gli dei del profondo e con le forze del cielo. Così diviene simbolo della terra che genera la vita, la distrugge e di nuovo la riprende.
Nella Bibbia dell’Antico Testamento (Gen. 3,1) il serpente è simbolo soltanto del male che insidia la prima donna e la fa cadere nella disobbedienza. Mosé, nel deserto, unisce i due concetti: l’ancestrale e il biblico e innalza il serpente per impetrare perdono.
2) Quando avrete innalzato il «Figlio dell’uomo», allora saprete che «IO SONO», in ebraico Jaweh.
Gesù presenta la sua vera personalità: «sono il Figlio di Dio». (Giov. 8,28).
3) «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Giov. 12,32).
La folla gli chiede: «Chi è questo Figlio dell’uomo?»
Gesù non risponde: «sono io», ma lo fa intendere:
«Ancora per poco tempo la luce è con voi… mentre avete la luce credete nella luce per diventare i figli.» (Giov. 12,36 ss).
4) «Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in Lui» (Giov. 12,37).
Gesù allora gridò a gran voce: «Chi mi respinge e non accoglie le mie parole ha chi lo condanna, la parola che ho annunciato lo condannerà nell’ultimo giorno, perché io non ho parlato di me, ma il Padre che mi ha mandato… E io so che il Suo comandamento è vita eterna». (Giov. 12,49)
5) Ora Gesù, nella Sua dignità di Figlio di Dio, raccomanda a tutti noi, per una vita di nobiltà e decoro, impegno forte:
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore produce molto frutto… se uno mi vuol servire mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servitore…».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora»… Mentre avete la luce credete nella luce per diventare figli della luce». (Giov. 12,20 ss.)
Tutti noi abbiamo bisogno di diventare «figli della luce» perché il buio è cieco, tetro, funereo.
Nel concetto di figli della luce vedo una «Resurrezione del momento» in cui ciascuno di noi si libera dal buio e si illumina di luce.
Vedo pure la Resurrezione finale come quella di Cristo che spezzò il sepolcro per vivere con noi nella storia del quotidiano e nell’eternità di Dio:
Mi accorgo che temo la Pasqua.
Non è così il Natale, perché quel Bimbo me lo prendo in braccio. So che è Bimbo. So che è difficile diventare come Lui, respirare come Lui la sabbia del deserto, sfuggire alla cattiveria di Erode, ma mi sembra di farcela.
Mi piace quel «crescere in sapienza, età e grazia»; ci provo, almeno.
Mi eccita l’idea di sorprendere i vecchi e barbuti saggi del tempio con la parola, le mani, gli occhi.
Non temo la Pentecoste. Tento di capirne quel linguaggio, libero dal tempo, dal finito, dall’assurdo, dal noioso. Un linguaggio pulito, denso di idee, di fantasia, di armonia, di infinito, di amore.
Ma temo la Pasqua: mi dà inquietudine e tormento, così come temo il fulmine, la tempesta, il mare infuriato, le bombe, il fischio del missile, il boato, le case che crollano, la morte.
Temo la Pasqua, perché temo il tempio laddove potrebbe sbucare il satanico Caifa, l’ideologo geloso di te, che ti schiaccia la testa, ti rompe il futuro.
Temo la folla, che ti applaude oggi e ti condanna domani. Temo gli amici che, quando hai sete, si addormentano. Temo la salita, perché il cuore impazzisce.
Temo il colpo nelle mani, nel volto, nella schiena, temo le spine, temo la febbre, il dolore, la morte.
Vivo nel morbido, mi avviluppo di pulito, dell’odore dei fiori, di musica, di poesia, dell’irreale.
Fuggo il lebbroso, l’accattone, il barbone, l’antipatico, il nemico.
Non riesco a scendere neppure uno scalino del sepolcro, è pieno di ombre, di incomprensibile, di paura.
Come faccio a risorgere, mio Dio, se ho paura di morire, di stendermi in una bara, di ascoltare il finto lamento di chi resta, di immergermi nel lacrimevole fumo d’incenso dell’impassibile prete?
Temo la Pasqua.
Mons. Giovanni Battista Chiaradia