Stiamo trattando in queste domeniche del negativo del quotidiano: il male.
Lo abbiamo diviso secondo la Bibbia in: «colpa, ingiustizia, empietà».
Della colpa ne abbiamo trattato nella predica precedente «
Il Peccato».
Oggi parliamo dell’ingiustizia.
Vediamone prima il contrario: la giustizia.
Tra le tante definizioni, quella più complessiva è: «Il riconoscimento dell’altro come soggetto degno di rispetto, al quale riconoscere, prima ancora della solita sequela di diritti più o meno fondamentali, la dignità umana».
Non è mia questa definizione: è di Emmanuel Lèvínas, professore alla Sorbona, uno dei più grandi filosofi del 900, ed appare nell’opera: «Dall’altro all’Io».
Ecco testualmente le sue parole: «L’esperienza fondamentale è l’esperienza di altri, esperienza per eccellenza. Il volto di altri mette in questione la felice spontaneità dell’Io».
È proprio l’esperienza di altri un punto centrale della cultura biblica dall’Antico al Nuovo Testamento.
Se manca questa realtà nella persona, nasce l’ingiustizia.
Il giudice del libro omonimo, che la traduzione greca chiama «Krites», è il soggetto che prende la decisione e fa la scelta, colui che dà un giudizio nella sfera divina e in quella umana.
Talvolta è il re che è giudice: «Dio, da’ al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia, regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine» (Sal. 72, I ss.).
È Dio il primo giudice: «Il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia al povero e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Deut. 10,18).
Giovanni, nel suo Vangelo, presenta Gesù venuto nel mondo per portare il giudizio.
Nella guarigione del cieco nato (Gv. 9,39) Gesù dice: «Io sono venuto nel mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Alcuni farisei nervosamente rispondono: «Siamo forse ciechi anche noi?»
La risposta di Gesù è altrettanto nervosa: «Se foste ciechi non avreste nessun peccato, ma siccome dite: “Noi vediamo ” il vostro peccato rimane».
Difficilmente questi testi vengono presentati e commentati; meglio presentare Gesù in mezzo alla folla che moltiplica i pani e i pesci!
Oppure ci si ferma al momento in cui all’adultera dice: «Nessuno ti ha condannata, neppure io ti condanno», e si passa via sull’ironia sui presenti: «Se qualcuno è senza peccato scagli la prima pietra».
E s’arriva all’episodio dell’invito del re ad un banchetto (Mt. 22,2ss), ma gli invitati non ci vanno e neppure si scusano, anzi uccidono i servi che avevano portato l’invito.
La reazione del re è terribile: «S’indignò e mandate le sue truppe uccise gli assassini e diede alle fiamme la loro città».
E la parabola delle dieci vergini di Mt. 25,10?
Cinque sagge e cinque stolte.
Non sembra piuttosto grave chiamare «stolte» solo perché si erano addormentate e avevano dimenticato, nei preparativi della festa di matrimonio, l’olio di riserva?
Ma tutto è grave quando si tratta di un avvenimento di quel genere; l’inizio di una famiglia che punta al futuro.
Tuttavia avremmo pensato che, dopo un rimprovero, la porta rimanesse aperta anche per le cinque sbadate.
E invece no! «Signore, aprici!». Ma Egli rispose: «Non vi conosco!».
Gesù vede distante: sono ragazze che non sono state attente a tutto ciò che avevano attorno in quella festa di matrimonio in cui la luce era di estrema importanza, tanto che Gesù le porta a pensare in alto: «Vegliate perché non sapete né il giorno, né l’ora».
Diremmo noi: «Se non si sta attenti nel poco, si è disattenti nel molto».
Cioè disattenti all’Altro che un giorno ti chiederà conto della vita, agli altri che ti domandano una luce nel buio dell’anima.
L’attenzione costante all’Altro, agli altri, è la definizione della persona che vive nella giustizia.
Avvolgersi dell’Altro e camminare con gli altri è l’essenza del cristiano, ma anche del vivere civile.
Cordialmente
Mons. Giovanni Battista Chiaradia