Fin qui, in queste pagine, abbiamo parlato del positivo, del bello e del grande, passando in rassegna alcuni percorsi della Storia Biblica.
Ora mi si chiede di porre lo sguardo nel basso del quotidiano e di trattare del negativo, cioè del «peccato», termine che vorremmo non fosse mai nato ed invece impera forte e indisturbato.
È la sconfitta della mente che si presenta proprio immediatamente dopo l’evento della creazione.
Un negativo che si riassume nelle pagine della Bibbia in tre parole, che prendo dal testo greco: «amartía, adichía, asébeia» «colpa, ingiustizia, empietà».
Sono vocaboli complessivi di altri, molti, che indicano il male.
Appena l’uomo ha scoperto e inventato il bello, il buono, immediatamente ha voluto il brutto e il cattivo, anzi, l’orrido, il malvagio.
Questi tre vocaboli nascono dalla ragione «sùnesìs», in greco, nel senso di ricerca, conoscenza, tante volte nominata nel libro dei Proverbi e immediatamente trasformata in «asùnesìs» che indica: disobbedienza, immoralità, cattiveria.
Cominciamo dalla prima parola «amartía» nel significato di «sbaglio, colpa».
Il concetto giudaico tradizionale indica, con questo termine, colui che non si ottiene alla legge, specialmente chi non rispetta l’altro.
Prendo come esempio di «sbaglio-colpa» il racconto evangelico del «Figlio prodigo», che mostra il caso di un figlio sventato e di un altro irritato, che hanno bisogno della bontà del padre.
Sarà difficile per un moralista, e ancor più per un giudice, stabilire chi ha peccato di più.
La forma eclatante del primo ci può distrarre dal nervosismo del secondo.
L’acidità del secondo imprime un segno che è forse più forte della sbadataggine del primo caduto nell’incontro improvviso degli impulsi della gioventù, forse dell’adolescenza, atta a travolgere la persona in esperienze che sorgono in una carnalità in subbuglio e che mettono a tacere un sano raziocinio.
Il fratello maggiore si sente ferito e leso dalla condotta del padre che ha ordinato una festa per il figlio, tornato dopo una triste esperienza.
Notiamo la presa di distanza che traspare nella scena del dialogo.
Mentre il più giovane aveva detto: «Padre», accostandosi a colui che aveva abbandonato, il maggiore evita questo appellattivo e sfoggia, senza tanti complimenti, le sue recriminazioni con evidente livore.
«Io ti servo da tanti anni…». In modo ancor più esplicito, afferma di non considerarsi più legato a suo fratello, che indica con sdegno: «questo tuo figlio».
Il più giovane, sventato quanto si vuole, ha un altro atteggiamento:
«Padre, ho peccato, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».
Nel suo modo di rispondere, il padre manifesta che se suo figlio maggiore vuole prendere le distanze, dal canto suo, la sua relazione con lui non cambia.
Mentre suo fratello si rifiutava di chiamarlo «padre», egli continua a riconoscerlo come «bambino mio» (“teknon”), un termine più familiare ed affettuoso di «figlio mio», come di solito si continua a tradurre nei testi evangelici di oggi.
Gli ricorda che il più giovane resta sempre suo fratello, anzi di più: «Tuo fratello era perduto ed è stato ritrovato».
Il primo: l’incoscienza lo ha spinto al baratro.
L’altro: la gelosia lo ha condotto all’ira e al disprezzo.
L’amartía, lo sbaglio porta a conseguenze talvolta gravi.
Oserei cambiare il tradizionale titolo della parabola da «Il figlio prodigo» a «Il Papà prodigo».
Se il figlio è stato «prodigo»: esagerato, egoista, balordo…
Il padre sarà «prodigo»: generoso, munifico, nobile…
Bizzarri ed insoliti colpi dell’anima per cambiare il volto del buio in luce.
Cordialmente
Mons. Giovanni Battista Chiaradia