Ho concluso la mia precedente predica con «Che cosa è il riposo della domenica? Nella prossima predica spiegherò», ma la ricorrenza della domenica Delle Palme mi ha fatto scegliere il «silenzio» rimandando il «riposo» alla prossima.
Gesù è condotto in catena davanti al Sinedrio e a Pilato: Falsi testimoni lo accusano.
Ecco la sua risposta: «Taceva, non rispondeva nulla» (Mt. 26,63; 27,14; Mc. 14,61…).
Difatti c'è un limite per rispondere: quando incontri stupidità e cattiveria si tace, non per superbia, ma perché non c'è nulla da dire.
Nell'A.T. c'è un personaggio chiamato Qoelet che scrive: (Qo.3):
«C'è un tempo per piangere/ e un tempo per ridere/. Un tempo per gemere/ un tempo per ballare. E poi: un tempo per tacere/ un tempo per parlare».
Difatti chi piange, chi ride, chi si lamenta, chi balla, parla, grida, urla, si agita, alla fine deve fermarsi e tacere per riflettere, per calmarsi, per prendere forma, per ritrovare se stesso.
In altro testo biblico, il libro dei Proverbi, (14,12) è scritto: «Chi disprezza il suo prossimo è privo di senno/l'uomo prudente, invece, tace».
Nel Siracide, l'altro libro della Bibbia (20,1 ss.), più problematico, si afferma: «C'è chi tace ed è ritenuto saggio/c'è chi è odiato per la sua loquacità/c'è chi tace perché conosce il momento propizio/l'uomo saggio sta zitto fino al momento opportuno.
In questi due testi il silenzio è fonte di prudenza e di saggezza.
Prima di parlare è necessario pensare.
La parola senza pensiero è pericolosa.
In Giobbe (39,11) troviamo il silenzio come meraviglia che produce la fede. Dopo il cumulo di avventure che lo ha colpito, non trovando in se stesso e nei tanti discorsi degli amici una soluzione, Giobbe si guarda attorno e, osservando quanto il Signore ha creato, si commuove ed è preso da grande stupore. Infine si rivolge a se stesso ed esclama: «Sai quando figliano la camozze?/e assisti al parto delle cerve»? E continua (40,1) «Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere?/Mi metto la mano alla bocca/. Ho parlato una volta, ma non replicherò,/ ho parlato due volte, ma non continuerò».
Nel Nuovo Testamento e in Gesù, inizio e fine della nostra mediazione, ritroviamo altri momenti di silenzio.
Una donna malata (Mt. 9,30), sperando di essere guarita, «gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del mantello». Notiamo che oltre al silenzio la donna non si fa neppure vedere: doppio è il silenzio.Gesù, però, avverte che quella donna gli sta facendo un lungo discorso. Il discorso della sofferenza e specialmente dell'umiliazione. È un discorso che non finisce mai. Lo si avverte, se abbiamo un po’ di sensibilità, come una nebbia che ti avvolge, come un vento che ti schiaffeggia.
Quando non ne possiamo più di noi stessi, degli altri, del mondo, quando si rischia la disperazione, mettiamoci seduti, magari al buio, in silenzio, davanti alla Presenza, Lui ci vede, ci sente e ci prende per mano.
Gesù si era fatto portatore dei poveri, degli emarginati, dei disprezzati, attirandosi l'odio, la persecuzione, l'ostilità e il deriso dei dirigenti della società d'allora.
Noi, bando ai giudizi e alle patetiche, davanti alla Croce, razionalmente, ogni dì, dobbiamo sostare. Deve diventare un'abitudine.
Senza parola, senza gestualità, fermi, immobili. Il pensiero arriva spontaneo al laico, al non credente, al credente.
Non arriva al superbo. Ci vuole un pizzico di umiltà, che è facile ottenere perché dona signorilità alla persona. Quel simbolo, che ha varcato i millenni, deve restare là dove i nostri nonni l'hanno posto.
Quel simbolo lo dobbiamo mettere là dove non c'è mai stato: negli stadi, negli uffici pubblici, nelle piazze…..Credenti o no, la Croce è un «memento» che ti punta lo sguardo addosso quando sei banale, maleducato, insensibile di fronte al dolore, alla disperazione, all'umiliazione.
Il Crocefisso, anche se non sei credente, ti sveglia dal tuo «io» ravvoltolato in te stesso, per diventare un uomo nuovo (Paolo ai Romani 6,6).
Cordialmente
Mons. Giovanni Battista Chiaradia