Coscienza e pietà: compagne di strada - di Mons. G.B. Chiaradia

La vicenda di Eluana nelle parole del Vecchio e del Nuoto Testamento

23/02/2009
La morte di Eluana, che non tratto nel suo inquietante interrogativo, mi dona una riflessione su due momenti necessari del vivere quotidiano: la coscienza e la pietà.
Dedico a Lei questa pagina.
Coscienza: è un termine che già dai tempi di Eschilo ed Erodoto (500 a.C.) domina la lettura, nel significato di essere consapevoli, essere coscienti di sé.
La famosa frase di Socrate: «Sono consapevole che non sono né molto né poco saggio» evidenzia il fatto che nell’ambiente greco precristiano si parla esclusivamente di cattiva coscienza.
I Romani, invece, sono in grado di parlare di una coscienza «bona», perfino «praeclara o optima», come leggiamo in Cicerone.
Finalmente con Seneca si vede nella coscienza una sentinella di Dio, data all’individuo affinché con il Suo aiuto viva in armonia con la natura e realizzi il suo progresso morale.
Con l’aiuto di Dio la persona ha un «indicatore» infallibile per il suo comportamento, specialmente quando si parla di vita o di morte.
Nella Bibbia dell’Antico Testamento la coscienza è la voce di Dio che esige dall’uomo rendiconto del suo comportamento.
Questa voce fa battere il «cuore».
In ebraico «eb»= cuore, assume le funzioni della coscienza di Davide peccatore (1 Sam. 24,6). Il senso della colpa lo invita alla penitenza, al pentimento e gli fa dire: «Crea in me o Dio un cuore puro e rinnova in me uno spirito saldo» (Salmo 52,12).
Nel libro della Sapienza (17,11), si parla di una cattiva coscienza che fa commettere azioni turpi.
L’altra dimensione di vita che ci aiuta a non commettere errori è la pietà.
Di fronte a ciò che incute rispetto, come la vita dell’altro più che della propria, la persona si pone con rispettosa e timorosa distanza. Questa idea della distanza indica che l’individuo avverte smarrimento nella sofferenza, specialmente quando è intensa e invincibile e pensa di esserne in qualche modo responsabile, anche se è indotta da uno solo che però rappresenta un insieme.
I verbi e le parole che la indicano nella Sacra Scrittura esprimono il venerare, il ritirarsi timoroso, il viverla religiosamente perché la sofferenza si rapporta sempre alla strada della Croce, all’immane dolore fisico e morale del Cristo.
La sofferenza dell’altro, dell’altra è l’immagine verace del Cristo in Croce.
Di fronte alla persona sofferente l’individuo si ferma e medita se per caso ne sia responsabile e cerca, in ogni modo, di venerarla come sacra, pensando che appartenendo alla stessa dimensione umana possa lui stesso esserne in qualche modo responsabile.
Questo ultimo concetto della responsabilità collettiva deve diventare il vero umanesimo della nostra età, se vogliamo essere civili.
Solipsismo ed egoismo dominano il nostro tempo e impediscono che la strada quotidiana della paura – così il tempo presente può essere definito – diventi un sereno, fraterno camminare tra veri fratelli.
Illusione?
Mons. Giovanni Battista Chiaradia