Nella vita di oggi c'è posto per la fede? - di Mons. Giovanni Battista Chiaradia

Riscoprire la Presenza è entrare nella via della fede

27/10/2007
Parlo della fede in Dio, perché la fede negli uomini, nelle istituzioni con i loro programmi è sollecitata, molto più di un tempo, dal modo odierno di condurre l’esistenza.
Difatti, una volta, l’uomo, pur vivendo in comunità, programmava il suo viaggio nella vita, quasi esclusivamente, basandosi sulle forze personali, sulle sue possibilità di intelligenza e di volontà.
Oggi, invece, l’uomo come «soggetto» corre il rischio di scomparire nel vortice del vivere «oggettivo», manipolato dall’insieme.
Ne consegue che «speriamo» e sperare vuol dire avere fede e fiducia (in fondo è la stessa cosa) non tanto in se stessi, quanto negli altri che detengono il «potere» (anche nelle democrazie più avanzate): sui programmatori che calino nel reale e nel concreto, sui politici che mantengano le promesse onestamente, sui blocchi umani che non si scontrino ed anche sulla terra che non si spacchi improvvisamente e così via.
Senza questa fede umana, per l’uomo non ci sarebbe un futuro, una speranza del meglio e quindi il superamento dell’angoscia ed una spinta per vivere.

E la «fede» in Dio?
Della fede in Dio ci sono molte definizioni che tralascio.
Mi riferisco piuttosto al «luogo» dove maggiormente è nata la fede che ha spinto Abramo, Mosé, i profeti a vivere puntando sulla liberazione dell’uomo e alla sua realizzazione.
Espressivo è il linguaggio ebraico dell’Antico Testamento: termini primitivi, ma incisivi per esprimere, in modo esistenziale, cosa voglia dire «credere». Ne cito qualcuno: particolare importanza per comprendere il significato del credere, ha la radice ebraica «aman» (essere solido, essere fedele) da cui deriva l’amen della nostra liturgia;
«Batah» è più consolante: vuol dire «trovarsi al sicuro», «basare la propria sicurezza in Dio».
Interessante è il termine «hash» che significa «cercare rifugio e scampo», mettersi al riparo, ed anche «jahal» = sapere aspettare, come il quasi sinonimo «hakah» = attendere con costanza, pazientare.
Da questi vocaboli deriva la parola complessiva di tutti i significati che troviamo in San Paolo: è la «pistis» (in greco) che comporta in modo particolare fiducia e speranza in Dio come nell’Antico Testamento, ma soprattutto stabilisce una solidarietà di vita e di destino con Cristo risorto, sia nel presente come in futuro nella vita eterna.
Ma il cammino di fede più connaturale all’uomo in dubbio sulle cose che non vede e che non avverte con i sensi è indicato dal vangelo di Giovanni: i primi discepoli incontrano Gesù, rimangono presso di Lui, fanno «quella» esperienza di vita: comprendono e «credono».
Così, quando i discepoli di Giovanni Battista domandano a Gesù chi mai sia, Gesù soddisfa la loro curiosità con un «Venite e vedrete» (Gv. 1,39).
«Vieni e vedi» è l’invito che Filippo indirizza a Natanaela (Gv. 1,46).
«Vieni e vedi» vuol dire fare silenzio dentro e fuori di sé, oppure anche restare nel tumulto delle paure e delle gioie del mondo, ma provare a scoprire nei meandri della coscienza o subcoscienza o in un filo d’erba o in un viso di un bambino o in un malato o in una bara che ti passa accanto, se, per caso, se per «probabilità», non ci sia una presenza che sia «La Presenza».
Perché si tratta proprio di Presenza, quando vuoi prendere contatto di un «fatto» che esiste in tutti noi, cioè del fatto dell’assoluto, dell’incommensurabile, del divino che attornia tutto ciò che è sfuggevole e inerte nella nostra vita.
Riscoprire quella «Presenza» significa entrare nella strada della fede.
C’è posto per questo cammino nel nostro affanno quotidiano? C’è un «luogo della fede» nella persona moderna? C’è, senz’altro e in tutti: per alcuni quel luogo è pieno di luce, per altri è avvolto nel crepuscolo, per altri ancora è un alternarsi di lampeggi e tuoni in uno sfondo di tenebre. Ma c’è.
E diventa sicurezza quando, anche nel dubbio, ti ci aggrappi, invocandola, come nella Bibbia nella sua preghiera finale, espressa in aramaico che era la lingua di Gesù: «marana tha», «vieni, Signore» (Ap. 22,20).
Dio che attende quella libera chiamata, viene senza dubbio: è sempre venuto a spiegarci il perché di quello che da soli non riusciremmo mai a capire. (GIOVANNI BATTISTA CHIARADIA)