L'amico L.R. mi internetta: "Cosa pensa del caso don Gallo?"
Penso che a nessuno di noi e' lecito esprimere un giudizio verso un sacerdote (per di più zelante e dedito a coraggiose opere di carità cristiana), il quale, convinto in coscienza di far bene, ma essendo anche convinto che l'aborto non e' moralmente lecito, ha indirizzato a un medico amico alcune prostitute incinte, perché risolvesse il loro drammatico, anzi tragico, problema.
In casi come questo, giocano vari aspetti della teologia morale e non solo quello dell'aborto. P.e. occorre distinguere tra collaborazione materiale e/o formale all'aborto e volontà diretta dell'abortire o del fare o del lasciare abortire; il criterio della necessità ("ad impossibilia nemo tenetur "[nessuno e' tenuto a compiere cose impossibili] dove e' da vedere il tipo, il quantum e il quale dell'impossibilita'), quello dell'urgenza, della carità come primo valore, della coscienza retta come primo fattore di moralità, della legittima difesa, del doppio fine, e altro: tutti elementi di valutazione che non possiamo trarre dalle informazioni - spesso fasulle - dei media e che invece, per verità, giustizia e carità, dobbiamo supporre don Gallo abbia considerato in coscienza.
Un tale giudizio, quindi, noi, da fuori, non lo possiamo dare: spetta solo a Dio.
Questa la mia risposta.
Ma penso che si attenda qualcosa di più. E allora, detto e ben sottolineato quanto sopra, penso si debba distinguere il caso don Gallo in sé, circa cui ho già detto; e il caso don Gallo quale e' apparso nei media.
Mi riferisco particolarmente:
A) a un articolo di Renato Farina su "Il Giornale" del 24 novembre us, dal titolo "Quando l'abortista indossa la tonaca". Comincia con le parole:" Il caso di don Gallo e' spaventoso"; e continua: "mi viene in mente Mengele ad Auschwitz"(nientepopodimeno!) e dopo un indefinibile discorso di teologia morale, conclude: "Risultato? Ha restituito, pulita di ogni impedimento, la ragazza al suo magnaccia. Sarebbe meglio che buttasse via la tonaca e si nascondesse". Vorrei rispondere in punta di forchetta; ma mi limito a dire ad alta voce: si vuole che "i preti facciano i preti e non i politici" (il che e' sacrosanto, ma fino a un certo punto!), così si deve volere che "i giornalisti facciano i giornalisti e non i teologi". Il dovere del giornalista e' informare e, in qualche caso, l'esprimere opinioni; ma mai in campi - tanto meno dare giudizi - nei quali non si e' competenti. Nel caso don Gallo (prescindo ormai da Farina), i giornalisti hanno dimostrato - come al solito - di essere preoccupati non tanto di informare, quanto piuttosto di fare scoop o spettacolo; come s'e' visto, p.e., quando hanno cercato di far pensare a imminenti fulmini della Curia genovese e del Vaticano, mentre l'atteggiamento di quelle Sedi e' stato ben più conforme ai criteri di verità, giustizia e carità nella libertà, che non a quelli dello scandalismo.
B) Mi riferisco anche alla trasmissione "Pinocchio" del 25 novembre us, dedicata tutta e solo a "Preti" (compresa qualche monaca). Qui, il presente don Gallo e' stato esposto al giudizio (pro e contro) di confratelli e consorelle. Senza ricordare quanto già detto all'inizio, dico subito che la presenza di preti sullo schermo (salve rare eccezioni) generalmente fa quasi pena e certo non suscita quei sentimenti di adesione - o anche di ripulsa - convinta che, da Gesu' in poi, hanno suscitato i diffusori della Sua parola. Ma sostengo anche che i preti devono - e non solo possono - apparire in tv; ma... come si deve, per non essere controproducenti; parlare in tv non e' come parlare dal pulpito. Questa volta e' apparsa - come ha tenuto a sottolineare fortemente il card. Tonini, pure presente - la diversità di opinioni: i"pro", i "contro", i "concilianti". (Ma quanti - mi domando - di quelli che intervenivano conoscevano la vera realtà della situazione di don Gallo?) Certo, quella diversità faceva gioco agli organizzatori della trasmissione (secolaristici e... in concorrenza per l'audience); ma penso che nessuno dei partecipanti, pure in buonissima fede, sapesse di mettersi nelle fauci del leone. Infatti, il conduttore Lerner interrompeva spesso gli discorsi spiritualistici piuttosto vaghi dei "contro" (per di più taluno troppo azzimato per essere sacerdotalmente credibile), chiedendo cosa c'entrava con la concretezza della situazione di quelle poverette (e nessuno gli rispondeva a tono); lasciava correre i troppo vaghi discorsi umanitari dei "pro" e sviava quelli altrettanto vaghi dei "concilianti"; sì da creare l'impressione che questi preti fanno sì bellissimi discorsi, mostrano anche sentimenti di solidarietà e di umanità, ma camminano con i piedi per aria e non vanno d'accordo fra di loro quando si tratta di problemi che pur toccano la vita concreta degli uomini d'oggi. Per di più, in quella trasmissione, quei preti più che invocare le basi teologiche del problema, si appoggiavano , in un senso o nell'altro, su delle applicazioni (che, senza quelle basi, hanno ben scarso valore). Diciamo allora: non ci si può fidare dei preti? No, ovviamente, perché non è vero!; ma intanto l'impressione di scarsa consistenza e' stata diffusa: da loro stessi;
C) Comunque sia, si può almeno concludere che per fare comunicazione con i media, occorre una specifica preparazione: non bastano le rette intenzioni, i buoni sentimenti e nemmeno certi criteri che circolano in quella parte del mondo cattolico. Come pure non basta che a formare in questi campi, si mettano persone scientificamente improvvisate o addirittura specificamente impreparate, anche perché in questi anni si sono accantonati i veri esperti. Le apparenze non bastano; ed e' colpa nostra se noi ci fidiamo di esse. I media danno apparenze, non realta'.