Allegria e luce - di Mons. G.B. Chiaradia

La grandezza della persona sta nella sua umiltà

05/12/2009
ALLEGRIA, tema di una mia predica precedente, ha bisogno di completezza. Ad ALLEGRIA aggiungo LUCE. Chi le integra e le perfeziona è la semplice parola «grazia». Immenso il significato.
 
Come sempre, vado alla radice della parola che nella cultura greca – Xar – indica ciò che produce benessere, in una gamma di significati che è piacevole leggere: «omaggio, favore, compiacimento, servizio, riconoscenza». Nella mitologia greca karsi è la bellissima moglie di Efesto, dio del fuoco, che produce e crea.
Le Grazie sono l’origine e le donatrici dell’attrazione, datrici di tutto ciò che è bello e gioioso nella natura e nella vita.
In origine, forse, divinità della vegetazione.
Accompagnavano Afrodite, dea dell’amore, inteso anche come attrazione tra le diverse parti del mondo e dell’universo per conservare, procreare: simbolo quindi dell’istinto naturale della fecondazione e della generazione.
Le Grazie avevano come compagno anche Apollo, divinità la cui sfera, nella quale esercitava la sua sovranità divina, era costituita dalla musica, dalla medicina e dall’arte di rivelare il futuro. Era il dio della conoscenza che risolveva l’incertezza, rivelando il volere degli dei.
Divinità chiarificatrice, connessa con la sapienza della filosofia e della religione, con le leggi. Sempre presente con la fondazione di nuove città o con l’inaugurazione di una strada, un ponte…. Con le Grazie c’erano sempre le Muse, protettrici del canto e della danza. Erano nove, ciascuna aveva un compito: elevare al massimo la poesia epica e didascalica, la commedia, la poesia corale, la poesia della mimica e della geometria, la danza, il canto sacro, l’invocazione agli dei all’inizio dei poemi classici come l’Iliade e l’Odissea!
 
Ho messo in evidenza quanto nella Grecia antica sia presente il senso della divinità al fine di ottenere il massimo della poesia e dell’arte: non tanto per avvertire la meraviglia che molti negli studi classici hanno certamente provato, ma per constatare che nel nostro tempo non credo ci sia questa dimensione divina, non dico solo nel campo della scultura o della pittura, ma anche per un dire e un fare quotidiano che vorremmo riuscire ad eseguire al massimo della perfezione.
Per scrivere una lettera importante, per un bambino che inizia le prime letture, per un esame di maturità, per una prova universitaria ci sarà qualcuno che intona «Gloria al padre, al Figlio, allo Spirito Santo»?
Un insegnante cristiano prima di salire in cattedra reciterà un’Ave Maria perché sappia dire con convinzione e con chiarezza la cosa che deve insegnare?
Un giudice, prima di entrare in aula per l’ultimo dibattito e poi la sentenza, si affiderà allo Spirito Santo?
Tornando alla Grecia, qualcuno mi dirà: «Ma era tutta fantasia»!
Ma no! Era realtà, perché nel divino c’era anche una bella e piacevole letteratura delle Muse rappresentate come delle belle signore capaci della meraviglia. Ma sotto quella meraviglia o attorno, come volete, c’era la realtà del divino!
Alla base del nostro dire, fare, specialmente del creare qualcosa di inedito nell’arte e nella letteratura oppure per presentare una bella preparatissima lezione o per non sbagliare una sentenza in tribunale, è necessaria una umiltà straordinaria: se non sei umile e piccolo, Dio non lo senti!
Dante, nella «Vita nova», parla di Beatrice: «Luce della sua umilitade passò li cieli con tanta vertude che fé meravigliare l’eterno Sire».
Il grande, il bello, il saggio della persona sta nella sua umiltà. Umiltà che ha impresso in sé attraverso ordine, sacrifici e rinuncia.
Mons. Giovanni Battista Chiaradia