L'Avvento (3) - di Mons. G.B. Chiaradia


14/12/2008
Dopo la seconda domenica di Avvento, la Liturgia ci ha presentato la mamma di Gesù come «Immacolata Concezione», cioè simbolo di una maternità intatta, casta, illibata, una presenza femminile al massimo della femminilità.
Non è sufficiente contemplare, è necessario vivere il Natale, salendo più che sia possibile alla dimensione di Maria.
Nessun’altra donna ci è arrivata?
Pare di si.
Anche se qualcuno parla di «partenogenesi», gli scenziati dicono che tale parola non appartiene alla natura umana, ma solo ai metazoi: animali pluricellulari.
Per rendere il nostro Natale abbastanza simile a quello di Gesù, nostro compito è rendere corpo ed anima liberi da brutture e cattiverie.
Sarà festa così: una rinascita in Cristo come recita la Sacra Scrittura:
«Se uno è in Cristo è una creatura nuova» (Paolo 2 Cor. 5,17).
Non è sufficiente contemplare un presepe e magari commuoverci di fronte alla meravigliosa persona di Maria e dedicarle una preghiera.
Bisogna in ogni modo tendere alla similitudine, all’affinità, alla finezza d’animo come caratteristica primaria della persona.
Questo cammino cristiano, questa tendenza al meglio di sé, a tutto ciò che non è presente, ha la sua corrispondenza e affinità in studi analitici di diversi pensatori come Levi Straus, Mircea Eliade, il benedettino Van Pery ed altri che parlano del tentativo dell’uomo ancestrale di una nuova nascita con la dinamica del verticalismo dell’albero, dalle radici che si sprofondano nella terra e si inerpicano in alto.
In quell’albero «l’uomo nudo» (Adamo si sentì nudo dopo il peccato) cerca di arrampicarsi per gradi in alto, alla ricerca di un respiro, del conoscere, del sapere per essere diverso.
Così «sposa» il sole, la luna, il fuoco, l’aquila, mentre il serpente (fu il serpente che insidiò Eva) cerca di impedire la salita e finalmente raggiunge una luce che chiamerà Dio.
Attraverso la simbolizzazione, l’uomo, la donna, diventano soggetti religiosi.
La creatura umana ancestrale punta sempre lo sguardo verso l’alto, dicono quegli studiosi del primitivo, per raggiungere un respiro, una consistenza di sé, un appagamento di libertà, dopo il buio e la pesantezza delle radici affondate nel fango.
Agli occhi di Eliade, lo studioso morto a Cicago nel 1986, il problema «uomo» va studiato perché si trova, dal suo nascere, nel cuore della religione.
Eliade scrisse un celebre trattato sulla «Storia delle Religioni» con lo scopo di identificare la prima esperienza umana come presenza del trascendente.
L’uomo primitivo, secondo questi studi, è nello stesso tempo «uomo religioso».
Impariamo dai primitivi ad essere religiosi?
Vogliamo solo essere terrestri?
«Historia docet» (la storia insegna) che essere solo «terrestri» è proprio molto brutto! Si può affondare nella melma!
Mons. Giovanni Battasta Chiaradia